Di Maria Rosa Cirimbelli

***

Mia madre nascondeva i coltelli quando papà beveva. E, per molto tempo, fu spesso. Quasi ogni sera prima di tornare a casa, lui faceva soste in taverne malandrine tra gatti e volpi, come un pinocchio senza via, trascinato verso la luce ebbra del torpore etilico.

Si consolava così, forse della sua amara infanzia, come a tanti rubata. Me compresa. E non c’era sera che le luci dell’auto non andassero un po’ sbieche, quando lo si vedeva arrivare, finalmente, dopo lunghi interminabili minuti di attesa. Suonava il clacson e sbandierava gli abbaglianti, come un radar che preannuncia l’arrivo di un uragano. Poi parcheggiava, e in base a quello noi sapevamo esattamente come sarebbe andata a finire la serata.

Saliva in ascensore e sbattendo la porta faceva il suo ingresso in casa: un appartamento di tre locali, nella periferia nord di Milano. Una casa pulita, ordinata come piaceva a mamma che quello faceva: puliva le case.

Entrava torvo, il capello nero, lo sguardo sbieco ma anche languido, quasi fanciullesco, un po’ da ebete. Barcollava, nel tentativo di togliersi le scarpe e mamma gli era già addosso con parole senza scuse, dure e impossibili da fornire prima di cena a bambini dell’età giusta per capire, ma dell’età sbagliata per comprendere. Alcune sere scappavo sulle scale buie, per evitare urla e rinfacci osceni. Mamma non era in grado di affrontarlo diversamente e noi, figli senza diritto di pace – il collo sempre un po’ incassato tra le spalle, come a schivare una pacca che quasi mai arrivava, ma era come se fosse – cercavamo di placarli, inutilmente.

A tre anni la varicella si scagliò come fuoco contro il mio occhio sinistro, cuocendomi irrimediabilmente la cornea. La mia fortuna furono sei lunghi mesi di mare, in colonia con le suore. Pochi bimbi malaticci, in una struttura estiva destinata a migliaia di ragazzi vocianti, che in inverno diventava un sanatorio miracoloso. Stanzoni immensi e semivuoti. Un Natale, un pinocchio, la mamma che andava via, i miei pianti, lo strazio delle sue telefonate fatte di nascosto dalla casa dei “signori di Milano”. Pochi indelebili ricordi, una foto a certificare che non ho sognato, e il mio occhio, quasi cieco, ma vivo e vispo.

Dicono che in quegli anni fosse normale crescere all’ombra del disagio, ma io non l’ho mai accettato. E credo che sia proprio questo ad avermi dato l’energia per elevarmi. Mi barcamenavo tra le malattie di papà e i suoi bisogni alcolici. Tra le ansie di mamma e il suo umore precario. Eppure, devo riconoscere che un seme, e forse più di uno, questa famiglia imperfetta lo ha messo in noi due figli, perché diventassimo persone solari e forti.

Cosa c’entra col giallo tutto questo? C’entra, un attimo di pazienza e vedrete che c’entra.

Giallo era il colore dei copriletti di peluche che avevamo in camera nostra, mio fratello ed io. Non so dove li avesse presi mamma ma quei copriletti erano gialli come pochi in giro. Non erano di ciniglia, quelli sono nella casa di Loano che ho visto quando ero già donna. No! erano di peluche: finti e caldissimi velli di pecora di plastica. Un rifugio per l’inverno e per i cattivi pensieri. Luminosi, nonostante la stagione di tristezze. Grossi come i sacchi a pelo militari che avrei usato in campeggio dell’oratorio qualche anno più tardi, quando l’impresa di fuggire al peggio era un’idea da condividere con il gruppo di amici, mai più persi.

In quella stanza di giallo vestita passavo ore in assoluta solitudine, fantasticando sfilate di moda, parlando e cantando con la testa infilata in un catino di plastica. Mi mettevo mollette di legno nei capelli per farli ricci come Minnie Minoprio. Mio fratello invece si vestiva da sciatore, si metteva scarponi e sci e mimava allo specchio tutte le mosse che poi avrebbe portato in pista. Credo che se oggi è ancora un provetto sciatore lo si debba anche a quell’allenamento fuori contesto. Ma questa è un’altra storia.

Giallo per me è il colore che più di ogni altro ha segnato il ritmo del mio risollevarmi. Fu giallo-sole il colore che scelsi per la mia cucina, quando a 22 anni e con un lavoro precario, sentii l’urgenza di uscire di casa. Giallo-polenta il colore che scelsi per colorare la grande casa che io e mio marito abbiamo costruito ancora ragazzi. Qui sono cresciuti i nostri figli in una casa dentro tutta bianca e per molto tempo semivuota. Ma che, con il passare degli anni, dopo mani e mani di solo bianco, ha reclamato un giallo che ci avvolgesse tutti. Fu biondo e quindi una declinazione di giallo, il primo cane che ho voluto, fortissimamente voluto e amato. Un altro passo verso la mia liberazione visto che mamma, di origini contadine, odiava animali di compagnia.

Nei giorni in cui sto scrivendo questo articolo, sul finire di un gennaio che è stato caldo come l’autunno di molti anni fa, il giallo torna a vibrare proprio in un momento nuovo per me. Si presenta come colore che pulsa di libertà e di determinazione, che esprime pensieri democratici in un paese ferito da un presidente perverso. È il giallo del cappotto di Amanda Gorman la giovane poetessa che ha restituito all’America il suo profilo migliore. Lei, nera, figlia di una ragazza madre, laureata in poesia a Harvard e impegnata a sostegno dei democratici, lei che a soli 21 anni parla di femminismo, razzismo, emarginazione e della diaspora africana, lei che ama la moda e la veste da incanto, lei che nonostante i social rubino concentrazione e grammatica immiserendo il vocabolario di tutte le lingue del mondo, crede ancora nel potere delle parole, lei si affida al giallo che è, di fatto, il suo colore totemico.

 

 

Anche a lei è certamente rivolto lo spot dedicato alla elezione di Kamala Harris, che puoi vedere qui. When one girl rises, all girls rise: quando una ragazza si eleva tutte le ragazze si elevano. Così recita la frase di chiusura del video. Più che una chiusura un punto di partenza perché siamo un esercito di donne in marcia verso la liberazione e tutte abbiamo qualcosa di giallo da cui prendere luce, per elevarci all’ennesima potenza.

E se è vero che il giallo è il colore della libertà, della liberazione, non c’è allora da stupirsi se è gialla anche la farfalla che Liliana Segre ci fa vedere quando porta alla sua memoria e alla nostra mente l’immagine della bambina rinchiusa nel ghetto di Terezin. È gialla coi puntini neri e vola quella farfalla, oltre le brutture di una vita breve e malvagia per chi ignara della sua sorte, la sta disegnando per renderla immortale. E diventa un simbolo e un monito, nei giorni della memoria, affinché ciascuno possa avere nel suo cuore una farfalla gialla, pronta a volare oltre ogni forma di violenza e di ingiustizia.

[siteorigin_widget class=”SiteOrigin_Widget_Image_Widget”][/siteorigin_widget]

Maria Rosa Cirimbelli

Nasco a Milano nel 1960 e dal 1997 sono una libera professionista.

La mia vita professionale è stata costellata da momenti buoni e altri meno, e quello che mi sorprende oggi è essere ancora felice di fare ciò che faccio. Mi occupo di comunicazione per le imprese e, dopo tanti anni di onorato servizio, posso dire di essere una consulente che sa orientare e guidare qualsiasi azienda in questa attività fondamentale.

Ho chiamato la mia attività Geode Comunicazione, perché mi intrigano i “belli dentro”, quelle realtà che, come il geode, viste da fuori sono sassi grezzi e duri, la cui vitalità e bellezza sta tutta all’interno. Ed è lì che mi piace indagare per fare emergere i valori, le esperienze, le qualità dei prodotti e delle persone.

Da sempre mi piacciono le storie, quelle belle, appassionate, che ti aprono gli occhi, la mente e il cuore. Storie da ascoltare, da scrivere e da condividere. Anche quelle impossibili, fatte di apparente normalità. Storie in bianco e nero o a colori. Storie da far vivere per non dimenticare.

Comunicare per me è emozione, oltre che competenza. Emozione che provo ogni volta che apro un geode e un mondo pieno di colori prende luce.

Il mio sogno? sviluppare il progetto CIRISCRIVE.