Di Marina Gellona

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Rosaspina e le altre con la pelle sensibile, gli abiti sontuosi e le sorellanze preziose

Sono una giornalista, sono femminista e amo profondamente le fiabe perché le trovo, ancora oggi, meravigliosamente rivoluzionarie. Possibile? Stiamo parlando delle stesse fiabe? Delle fiabe in cui le donne trascorrono metà della vita a lavare pavimenti, piatti, pentole e l’altra metà a infilarsi decolleté di cristallo, vestiti da sposa o ad attendere per anni principi senza occhi che vagano per il mondo mangiando radici mentre lei, la principessa, alleva i figli da sola?

Sì, parlo proprio di quelle fanciulle che possono apparire sventurate svenevoli e frivole e vorrei raccontarvi, nelle prossime righe, perché continuo (e non da sola) ad avvertire, in queste narrazioni senza tempo una carica sovversiva e traboccante di creatività. Questa carica si nasconde sotto le unghie coperte di fuliggine e tra le pieghe dell’abito rosa di Cenerentola, tra le migliaia di spine del roseto della Bella Addormentata e sulle sue labbra inconsapevoli del bacio a cui sono destinate, nella neve e nel sangue che non si mescolano mai a formare una tinta rosata sulle guance bicolore di Biancaneve e in molti altri dettagli della vasta compagnia di fanciulle e future regnanti delle fiabe classiche, quelle – per intenderci – raccolte dai Grimm, da Perrault, scritte da Andersen o radunate e riscritte in italiano da molti dialetti italiani da Italo Calvino.

Questa carica è fatta di: libertà (o meglio: liberazioni), empatia (accorgersi degli altri e collegarsi a loro in reti di alleanze) e una struttura che è stata definita, dalla psicologa Marie-Louise von Franz, “una sorta di scheletro, dal quale i muscoli e la pelle sono stati tolti”.

Nell’avvicinarsi alle fiabe, lettori e lettrici sono, infatti chiamati ad essere molto più attivi e intuitivi, pronti all’interpretazione, alla ricerca di significati e di simboli che in altre letture e per leggerle ci vogliono occhi e occhiali particolari per vedere muscoli, pelli, volti, laddove sono solo accennati e rischiano di essere fraintesi. Un paio di questi occhiali li ho trovati nella domanda di uno dei miei figli che, a cinque anni, mi chiese: “mamma, ribellarsi vuol dire diventare più belli?” ed io, che mi ero rimessa a studiare le fiabe e la loro struttura proprio per loro, per raccontarle meglio ai miei bimbi, gli ho risposto: “sì, tesoro, in un certo senso… è così”, e l’ho detto pensando alle principesse che nelle fiabe splendono, nei loro abiti stupendi, (simboli, dunque, non griffe) di una più profonda bellezza, la ribellezza.

 

 

La “ribellezza”, che da allora è una parola che ringrazio mio figlio di avermi regalato, nasce proprio da ciò che Italo Calvino descrive così bene come l’architettura profonda delle fiabe, ovvero: “la comune sorte di soggiacere a incantesimi, l’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando.” Sì, l’ultima frase sembra uno scioglilingua più confondente che liberatorio. Ma a venirci in aiuto è proprio questo legame a doppio filo che unisce le protagoniste delle fiabe (e i loro compari al maschile) le une agli altri, alle altre: abbiamo un destino comune, ed è quello di soggiacere a incantesimi che, dentro e fuori di noi sono stimoli potenti – e passaggi necessari – all’autodeterminazione, che, detta in altri modi, è una ricerca di libertà.

Quali sono gli incantesimi delle nostre principesse? La violenza, la gelosia, la volontà di manipolazione da parte delle altre figure della fiaba: un padre, una madre o matrigna, una strega, un fratello, uno sconosciuto che esercitano soprusi, minacce, schiavitù, imprigionamenti pur di esercitare un potere: la mela, il fuso, la torre, il sotterraneo. Attenzione: a volte sono forze interiori, non figure esterne e intorno a noi, un po’ come quando sogniamo: sogniamo sempre, dice la psicologia della Gestalt, parti di noi.

Il desiderio di libertà, detto in altro modo, è l’attitudine e il desiderio che ciascuna ha di fiorire, di essere se stesse. Cenerentola vuole andare al ballo e danzare tutta la sua giovinezza e la sua voglia di vivere, Biancaneve vuole scampare alla morte ed è disposta ad attraversare un bosco da sola, di notte (a me è successo, per una gara di corsa in salita sulla collina della mia città, con tanto di pettorina numerata e torcia flebile e poco fiato… vi assicuro che è un’esperienza che non si dimentica: stare da sola nel bosco di notte fa davvero paura) per scampare alla morte, Rosaspina vuole essere libera di muoversi e di non trascurare nessun luogo del suo castello pur di crescere e così via. E ciascuna di loro è disposta ad affrontare ciò che deve, pur di diventare ancora più libera, più “ribella”.

 

 

Ed è qui che entra in gioco l’empatia perché diventare più libera, da sola, dicono le fiabe, è impossibile. L’empatia, allora, è intesa come capacità di vedere l’altro, di vederlo davvero, e di farlo a doppio senso: il lieto fine delle fiabe è possibile ma non è facile, è una cordata di alleanze, è una rete di relazioni virtuose, è vedersi ed esserci per l’altro, per l’altra. Prevede molti passaggi, una configurazione dell’animo che mette in primo piano la capacità di accorgersi degli stati d’animo e dei bisogni di chi ci sta intorno: per Cenerentola, soprattutto in certe antiche versioni delle fiaba (ma anche nel film più recente di Kenneth Branagh, dove Helena Bonham Carter è la fata madrina), è l’aver dato da mangiare e da bere a una vecchina a restituirle un abito per andare a ballare, per Biancaneve è l’essersi presa cura di una casa e di una serie di nanerottoli e aver avuto in cambio l’accoglienza e la protezione, come una sorta di ragazza alla pari. Per la principessa sorella dei dodici principi, trasformati in undici cigni, è cucire camicie per loro, per liberarli dall’incantesimo.

E liberarsi è anche un lavoro che segna la pelle, il corpo e se potessimo tendere la nostra mano di donne del ventunesimo secolo alle fanciulle delle fiabe, incontreremmo: mani punte da fusi, palmi ricoperti di cenere, mani che hanno pulito apparecchiato riassettato tavolate da 8 persone nei boschi, dita ricoperte di bollicine rosa che hanno cucito camicie d’ortica, polsi diafani che spuntano sotto un mantello di pelle d’asino o di topo, mani che, nel venirci incontro, estraggono dalla tasca anche la mano di bambole di pezza alle quali assomigliano come gocce d’acqua o che vi vengono incontro mentre lei scosta una lunghissima treccia di capelli d’oro.

Quindi, a guardarle bene da vicino, rispettando i simboli, le principesse delle fiabe non sono affatto passive, le loro mani sono attivissime e così i loro piedi, che fanno tantissime cose, lavorano, ballano, corrono, riassettano, cuciono. Se le guardiamo in senso letterale, sembrano inchiodate a un ruolo casalingo, alla sartoria, al massimo alla fuga, ma se cerchiamo il senso metaforico, forse, i loro mestieri sono raffinati saperi dell’anima e della relazione: tessere trame di senso, danzare l’energia dell’essere al mondo, saper aver cura dei propri luoghi ed ecosistemi, l’istinto di portare in salvo la pelle. Ed è qui, proprio nella pelle delle protagoniste che cambia colore, che c’è un segno del rosa che più mi è caro: quello della pelle umana, un rosa che ha molte sfumature e su cui si tracciano molti piccoli disegni superficiali che raccontano qualcosa di più profondo…

E con la pelle, cambia, con i passaggi di trama, di crescita, anche la loro seconda pelle, ovvero l’abito: segno di superficie (non superficiale) che racconta una nuova profondità dell’anima. Ho sempre amato gli abiti come svelamenti più che come maschere e il guardarsi allo specchio come momento di apparizione di qualcosa di più profondo più che come vanità. Per dirla con Milan Kundera, guardarsi allo specchio è un modo di chiamare l’anima sul ponte di coperta del corpo: “come quando l’equipaggio irrompe dal ventre della nave, sale sul ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta” (L’insostenibile leggerezza dell’essere).

Chissà, sarà perché le fanciulle sono anime profonde che vogliono affiorare sulla superficie della pelle, che i loro abiti, spesso sono rosa come il loro incarnato?

 

 

Infine, come dicevo, accanto all’anelito alla libertà e all’inclinazione all’empatia, nelle fiabe c’è un invito esplicito alla creatività: sono scheletri, le fiabe, dai cui muscoli e pelle sono stati tolti… no? Sarà forse per questo che così tante scrittrici e scrittori hanno provato a lavorare sulle fiabe per riscriverle. In inglese, questa operazione creativa, si chiama “retelling”, in italiano va anche bene dire: rivisitazione, riscrittura. Ed è un mondo così affascinante: un esempio su tutte, sulle nostre amate odiate (voi le amate o le odiate?) principesse sono i lavori teatrali di Emma Dante che sono splendidi spettacoli per ogni età e che possono essere apprezzati anche nel suo libro: “Le principesse di Emma” con le illustrazioni di Maria Cristina Costa. Cenerentola, Biancaneve e Rosaspina, qui cambiano i colori dei loro abiti, si trasferiscono in luoghi diversi dai non-luoghi e non-tempi fiabeschi: Cenerentola vive in un paesino siciliano, balla il tango, veste, alla fine, di rosso. Biancaneve incontra nani a cui una mina, in miniera, ha fatto saltare le gambe e ha una matrigna altissima. Rosaspina non viene baciata da un principe ma da… (non lo dico, non voglio svelare la meraviglia di questa rivisitazione). Le fiabe sono scheletri e ogni epoca cuce loro addosso pelli e volti ad hoc, ogni singola artista o narratore le può riscrivere, scovando e inventando angolazioni inedite, restituendo alle fiabe la potenza di un simbolo che è tale perché non è mai completamente rivelato e perché ci interroga continuamente, attivamente, per ispirare sempre nuove ribellioni e nuove storie.

Se volete, tra l’altro, il 20 maggio inizia il mio corso on line “fiaba per fiaba” per la Scuola Holden, dove vi accompagnerò in un percorso di scoperta dei molti modi in cui possiamo entrare nelle fiabe e uscirne con una nuova storia e un nuovo abito, per loro e forse, in fondo, per noi stesse.

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Marina Gellona

Da bambina, come tante, amavo la formula magica con cui si chiudono quasi tutte le fiabe: “e vissero tutti felici e contenti”. Crescendo ho capito che il lieto fine non si verifica con facilità, in nessun ambito della vita: e per un periodo non l’ho presa bene. Mi sono laureata in filosofia con molte domande esistenziali in testa, ho lavorato per il commercio equo, ho vissuto Genova durante il G8 del 2001 e ho cercato uno strumento interpretativo ulteriore: la narrazione.

Espressione contro repressione era il mio mantra, quando mi sono iscritta alla Scuola Holden di tecniche della narrazione. Da allora mi impegno in ricerche e progetti legati al raccontare: dal 2003 insegno una forma di narrazione molto particolare, quella che si scrive ascoltando le persone che raccontano la propria vita o un’esperienza significativa; poi insegno giornalismo per bambini, manutenzione della creatività e scrittura fiabesca. Ho pubblicato racconti; scrivo per alcune riviste, sono giornalista pubblicista. Curo il progetto Infinito8marzo, che dà voce alle donne intervistandole per le strade della mia città, Torino. Le fiabe sono tornate nella mia vita e sono, a volte, tema delle mie lezioni: non ho ancora trovato la formula magica, ma conosco e insegno il potere conoscitivo e sociale delle storie ben raccontate. Qualunque sia il loro finale.

A maggio 2020 è uscito il mio libro Ascoltare e narrare le vite degli altri. Oltre gli stereotipi, i silenzi, le ingiustizie per Dino Audino Editore.